di Graziano Tavan
Lugubri rintocchi nelle notti di luna piena. Salivano dal fondo del mare, terrorizzando gli increduli marinai. Tra i pescatori di Chioggia e Pellestrina c'era chi giurava di averli sentiti. Un brivido attraversava loro la schiena solo a raccontare di cupe leggende di morti senza pace le cui anime dannate vagavano nel fondo del mare. «Sono le anime degli abitanti di Metamauco la città perduta e sprofondata nel mare tanti e tanti anni or sono», sussurravano i pescatori. «I loro spiriti tormentano ancora i vivi per testimoniare la loro tragedia».
Un'Atlantide in Adriatico. Misteriosa. Terribile. Una città fantasma che alimentava fobie e superstiziosa paura, tanto da costringere all'epoca il parroco di Malamocco a celebrare più di una messa liberatoria e ad attivare vari esorcismi per allontanare demoniaci timori dai fedeli.
Sembrano storie d'altri tempi, leggende da secoli bui del Medioevo. E invece siamo tra i pescatori delle isole della laguna di Venezia all'inizio degli anni Sessanta del secolo scorso. «Da sempre chi va in mare per pescare sa bene che proprio in quelle zone dove il pescato è più abbondante qualcosa di misterioso trattiene a volte le reti sino a romperle», ricorda Riccardo Bottazzo, veneziano, sub istruttore federale, che ha avuto modo di collaborare anche con Nausicaa, il nucleo di archeologia subacquea della soprintendenza diretto da Luigi Fozzati. «I pescatori le hanno chiamate "tegnue ". E l'origine della parola è facile da comprendere. Ma di che cosa si trattasse, in che cosa consistessero esattamente queste "tegnue " nessuno poteva dirlo. Il fondale adriatico, per quanto si poteva supporre all'epoca, doveva per forza di cose rispecchiare le peculiarità della nostra costa. Quindi piatto e sabbioso». Facile dunque che nell'immaginario collettivo prendesse forma l'idea di aver individuato la città fantasma. «Che cosa poteva lacerare le maglie delle reti a strascico se non le case diroccate o le mura abbattute dalla furia del mare di quella mitica Atlantide dell'Adriatico?», pensavano i pescatori. «Magari i resti di quello spettrale campanile», continua Bottazzo, «la cui campana si era pronti a giurare continuasse imperterrita a scandire dal fondo del mare le ore notturne, come volesse numerare i peccati dell'umanità».
Il mistero fu svelato esattamente nell'estate di quarant'anni fa, nel 1966, quando anche a Venezia arrivarono gli erogatori targati "Jacques Costeau" per consentire le prime ricerche di archeologia subacquea, e i sub veneziani riuniti in una sorta di club chiamato non a caso Metamauco (pionieri nella ricerca sottomarina: l'archeologia subacquea come disciplina specifica sarebbe stata riconosciuta dal ministero soltanto vent'anni più tardi, nel 1987) furono i primi esseri umani a posare lo sguardo stupefatto - dietro il vetro delle maschere Pinocchio appena messe in commercio dalla Cressi - su un giardino sommerso di indescrivibile bellezza: le tegnue .
«Un po' come avvenne per Cristoforo Colombo che cercando una nuova rotta per le Indie trovò l'America», azzarda Bottazzo, «così i primi sub scesi alla ricerca dell'antica e favolosa Metamauco si imbatterono in qualcosa di altrettanto importante, anche se nulla aveva a che vedere con la città perduta. Non trovarono un tesoro archeologico, ma un non meno prezioso tesoro biologico: le tegnue . Era un mondo fino ad allora completamente inesplorato. Un mondo che non sorgeva al di là di chissà quale sperduto oceano, ma che giaceva sul fondo del mare, a due passi da Venezia, ad appena una ventina di metri dalla superficie. Solo venti metri di acqua salata ma che, prima dell'invenzione di Costeau, lo rendevano più inaccessibile di un lontano pianeta».
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